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MED AND GULF

EXECUTIVE BRIEFING

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Palazzo Clerici, 13 marzo 2012

Dossier a cura del Programma Mediterraneo dell’ISPI

L’incontro è realizzato nell’ambito del progetto promosso da

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Politica

1. Quadro politico

2. L’Arabia Saudita di fronte alla Primavera araba

3. Ruolo regionale e rivalità con l’Iran

4. Le relazioni con gli Stati Uniti

5. Le relazioni con l’Asia

Economia

1. Quadro macroeconomico

2. Interscambio commerciale

3. Investimenti

4. Il principale produttore mondiale di petrolio

5. Il picco del prezzo del petrolio

6. Squilibri demografici e mercato del lavoro

Approfondimenti

1. Il Consiglio di cooperazione del Golfo

2. La finanza islamica

3. I progetti ferroviari nella penisola arabica

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L’Arabia Saudita è una delle poche monarchie assolute del mondo, classificata al 161° posto su 167 nel Democracy Index dell’Economist Intelligence Unit. Fin da quando si è insediata nel 1932, la famiglia al-Saud ha mantenuto saldamente nelle proprie mani tutti i poteri dello stato, attraverso un sapiente dosaggio di autoritarismo, rapporti clientelari e una forte legittimizzazione religiosa. Quest’ultima è stata garantita dalla stretta alleanza della casa al-Saud con il clero wahabbita, espressione di una forma di islam ultra conservatore e religione ufficiale dello stato. Le uniche elezioni che si svolgono nel paese sono quelle municipali, a suffragio unicamente maschile, sebbene nel 2011 sia stata prevista l’estensione del diritto di voto anche alle donne a partire dal 2015.

Nonostante nel corso del 2011 l’Arabia Saudita sia stata contagiata, seppur limitatamente, da manifestazioni di protesta soprattutto nelle province orientali a maggioranza sciita (si veda Politica 2), il paese è sostanzialmente stabile. Negli 80 anni di regno, la casa al-Saud è stata infatti in grado di tessere fitte relazioni familiari o clientelari con tutti i principali leader tribali, religiosi e con i maggiori esponenti del mondo economico.

Il principale fattore di criticità per la stabilità della monarchia nel breve-medio periodo viene proprio dall’interno della famiglia reale, ovvero dalle dispute intorno al sistema di successione. La veneranda età (87 anni) del re Abdallah bin Abdel Aziz e la recente scomparsa dell’erede al trono designato, anch’egli molto anziano, Sultan bin Abdel Aziz, hanno riaperto l’annoso problema del sistema di successione della dinastia saudita, che finora ha funzionato in senso “orizzontale”, ovvero passando da fratello a fratello tra i numerosi figli del fondatore del regno, Abdel Aziz al Saud. Il principe Nayef, l’attuale erede al trono, è infatti anch’egli molto anziano (79 anni), così come tutti i figli ancora in vita di Abdel Aziz. Nonostante la necessità di passare il potere alla seconda generazione della famiglia, non esiste alcuna regola prestabilita per la designazione dell’erede al trono tra i numerosissimi nipoti del fondatore. A questo fine re Abdallah ha decretato la formazione di una commissione composta da membri anziani della famiglia che dovrà nominare ufficialmente l’erede a partire dalla prossima successione al trono, ovvero quella che avrà luogo dopo la morte di Nayef. Data la concentrazione di tutte le leve del potere economico, militare e civile nelle mani dei membri della casa al-Saud, le possibili faide interne causate dal mancato raggiungimento di un accordo potrebbero essere fonte di grandi tensioni e instabilità.

Altre possibili fonti di instabilità interna sono rappresentate dal terrorismo qaedista, dalla alta disoccupazione giovanile, dalle crescenti istanze per una maggiore democratizzazione, nonché dal diffuso malcoltento presente all’interno dalla minoranza sciita delle province orientali, dovuto alle forti discriminazioni cui è sottoposta da parte della maggioranza sunnita della popolazione. Per quanto riguarda il terrorismo di stampo qaedista, che in passato è stato in grado di mettere a segno numerosi attentati sul territorio saudita, il pericolo può dirsi oggi notevolmente ridimensionato. Ciò è stato possibile grazie a un intenso lavoro di intelligence, repressione e propaganda interna portato avanti con la collaborazione degli Stati Uniti, che ha costretto la rete qaedista nella penisola arabica a rifugiarsi nelle regioni più impervie dello Yemen. L’intervento saudita di mediazione nelle rivolte contro il presidente yemenita Saleh è da vedersi in primo luogo mirato alla lotta al terrorismo qaedista attraverso la stabilizzazione politica della sua ultima roccaforte. Per quanto riguarda invece l’alta disoccupazione giovanile, le pressioni per una progressiva liberalizzazione del sistema politico e la discriminazione della minoranza sciita orientale, i problemi rimangono ancora aperti, anche se sotto controllo grazie a un mix di forza coercitiva, esercitata attraverso un apparato di sicurezza fedele e capillare, e di ingenti aiuti e sussidi finanziari.

PPOOLLIITTIICCAA

11.. QQUUAADDRROO PPOOLLIITTIICCOO

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L’effetto contagio delle rivolte scoppiate in Nord Africa all’inizio del 2011 si è esteso anche alle ricche monarchie del Golfo. In Arabia Saudita scontri si sono verificati a più riprese durante l’anno nelle zone orientali abitate dalla minoranza sciita sottoposte a pesanti discriminazioni di natura settaria. Il massiccio e tempestivo dispiegamento degli apparati di sicurezza e dell’esercito ha però consentito di reprimere i tentativi di rivolta nelle province orientali (sebbene persistano ancora alcuni focolai) e ha scoraggiato la discesa in piazza dei manifestanti a Ryadh nel “giorno della collera” (11 marzo 2011), facendo così fallire l’appello lanciato dagli attivisti sul web. Parallelamente alle azioni repressive, re Abdallah, prontamente rientrato nel paese dopo un periodo di cure ospedaliere negli Stati Uniti, ha annunciato un massiccio stanziamento (circa 130 miliardi di dollari) di fondi per progetti di edilizia abitativa, nuovi ospedali, scuole, nonché un sostanzioso aumento degli stipendi (sia nel privato sia nel pubblico) e l’introduzione dell’assegno di disoccupazione per i numerosi giovani sauditi senza impiego. Al di là della situazione interna, l’azione “stabilizzatrice” della monarchia ha riguardato anche il contesto regionale a partire da Bahrein e Yemen.

All’interno della penisola arabica, Riyadh si è infatti posta attivamente alla testa delle forze

“controrivoluzionarie”, rappresentante dagli stati monarchici membri del Ccg (Consiglio di cooperazione del Golfo, composto da Arabia Saudita, Bahrein, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Oman e Qatar), le cui forze armate, composte per la maggior parte da sauditi, sono state mandate in aiuto della dinastia degli al-Khalifa in Bahrein, dove le rivolte popolari – che avevano coinvolto soprattutto la maggioranza sciita della popolazione, sostenuta dall’Iran – avevano fatto traballare pericolosamente la dinastia regnante appartenente alla minoranza sunnita.

La diplomazia saudita è poi intervenuta attivamente nella risoluzione della crisi yemenita, ponendosi al centro della mediazione tra le forze dei rivoltosi e il regime del presidente Saleh e riuscendo, dopo lunghe trattative, ad arrivare alla firma di un accordo per un passaggio pacifico dei poteri.

Il Ccg, su pressione saudita, ha infine invitato Marocco e Giordania, le altre due monarchie arabe, a entrare a fare parte dell’organizzazione, con tutti i vantaggi economico-finanziari che ciò implicherebbe (si veda Approfondimento 1).

In Nord Africa l’attività diplomatica di Riyadh è risultata più ambigua. Dopo aver mal digerito la caduta delle dittature di Tunisia e Egitto, l’Arabia Saudita si è invece pronunciata in modo deciso in favore dell’intervento della Nato a fianco dei rivoltosi libici e ha offerto aiuti economici al governo di transizione egiziano. Non mancano inoltre sospetti riguardo a finanziamenti segreti sauditi (e qatarini) verso i partiti più conservatori che hanno preso parte alle recenti elezioni tunisine ed egiziane, in particolar modo verso al partito egiziano salafita al Nur. Infine, l’Arabia Saudita è in questo momento attiva all’interno della crisi siriana. Dopo un iniziale tentennamento, Riyadh ha infatti rotto col regime baathista di Assad e ha giocato un ruolo di primo piano nell’iniziativa della Lega araba che ha portato all’invio degli osservatori dell’organizzazione in Siria.

PPOOLLIITTIICCAA

22.. LL’’AARRAABBIIAA SSAAUUDDIITTAA DDII FFRROONNTTEE AALLLLAA PPRRIIMMAAVVEERRAA AARRAABBAA

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A partire dalla rivoluzione khomeinista del 1979, la rivalità con l’Iran è diventato uno dei tratti principali della politica estera saudita. Sin dai primi mesi post-rivoluzionari, infatti, la nuova leadership iraniana non ha fatto mistero di voler contendere all’Arabia Saudita la supremazia culturale e religiosa sul mondo musulmano, innescando così la reazione di Riyadh ed esacerbando le antiche rivalità tra sciiti e sunniti. La competizione si è riverberata nei decenni seguenti in molti scenari di conflitto regionale come la guerra Iran-Iraq (in cui i sauditi hanno elargito ampi aiuti economici alle forze irachene), il conflitto libanese (in cui le forze della maggioranza sunnita erano sostenute da Riyadh, mentre quelle della comunità sciita, in particolare Hezbollah, da Tehran), o il conflitto arabo-israeliano (in particolare nella contrapposizione tra Fatah, finanziata dai sauditi, e Hamas, sostenuta dall’Iran).

In anni più recenti la competizione è indirettamente proseguita in Iraq, con il sostegno iraniano per la formazione politica sciita dell’attuale premier Nouri al Maliki, contrapposto al sostegno saudita per le forze politiche sunnite locali.

Con lo scoppio della Primavera araba la rivalità tra i due paesi non ha perso la sua importanza come chiave di lettura delle azioni intraprese dai due paesi in ambito regionale. Tehran ha infatti inizialmente guardato con entusiasmo alla caduta dei regimi di Tunisia ed Egitto, storici alleati regionali dell’Arabia Saudita, arrivando addirittura a definire tali rivoluzioni come “figlie” di quella iraniana del 1979. Analogamente, in Bahrein, la leadership iraniana ha sostenuto le rivolte contro la monarchia sunnita degli al-Khalifa, facendo scattare la reazione saudita con l’invio di migliaia di soldati in aiuto della famiglia regnante sotto l’egida del Ccg. I due paesi si trovano su due fronti contrapposti anche all’interno della crisi siriana, che vede il regime degli Assad – clan proveniente dalla setta sciita degli alauiti, e principali alleati arabi dell’Iran – sottoposto a enormi pressioni da parte dei rivoltosi, appartenenti principalmente alla maggioranza sunnita della popolazione.

La vicenda del nucleare iraniano ha inoltre aperto un nuovo fronte per la competizione fra le due potenze. L’avvio di un programma nucleare da parte di Teheran ha suscitato non poche preoccupazioni in Arabia Saudita che ha, a sua volta, intrapreso progetti per lo sviluppo del nucleare civile, così come altre monarchie del Golfo (Eau e Kuwait).

È inoltre importante notare come la Primavera araba abbia notevolmente rinforzato il ruolo del Ccg, sia in chiave anti-iraniana, sia come strumento di stabilizzazione interna delle monarchie del Golfo. L’Arabia Saudita ha consolidato sempre più il suo ruolo di leadership militare ed economica dell’organizzazione nella quale ha ripreso vitalità negli ultimi mesi il vecchio progetto di una progressiva unione politica fra i membri su modello europeo (si veda Approfondimento 1).

PPOOLLIITTIICCAA

33.. RRUUOOLLOO RREEGGIIOONNAALLEE EE RRIIVVAALLIITTÀÀ CCOONN LL’’IIRRAANN

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Le relazioni tra Arabia Saudita e Stati Uniti risalgono agli anni Quaranta, poco dopo la nascita del regno saudita. Furono infatti le compagnie petrolifere americane le prime a firmare contratti con il re Abdel Aziz, fondatore della dinastia, per lo sfruttamento degli allora inesplorati giacimenti sauditi.

Fino alla fine della Guerra fredda le strette relazioni tra i due paesi si sono rette sue due colonne principali: gli interessi delle grandi compagnie petrolifere statunitensi sul greggio saudita e la comune avversione al comunismo, che aveva portato l’Arabia Saudita nel campo occidentale nonostante le contrapposizioni dovute alle posizioni americane ed europee nel conflitto arabo-israeliano (che hanno portato anche alla peggiore crisi fra Arabia Saudita e blocco occidentale in occasione della guerra dello Yom Kippur, nell’ottobre 1973). Il primo fattore è però venuto meno già negli anni Settanta, con la progressiva perdita da parte delle grandi compagnie americane di potere decisionale sul petrolio saudita a favore della casa regnante, mentre il secondo ha cessato di esistere con la caduta del muro di Berlino e la conseguente fine della Guerra fredda.

Al momento il principale punto di convergenza tra i due paesi in politica estera è rappresentato dalla contrapposizione nei confronti dell’Iran e dall’esigenza di limitarne il potere e prevenirne le mire egemoniche nell’area. A questo proposito è tuttora molto attiva la collaborazione militare fra i due paesi, che vede gli Stati Uniti fornire a Riyadh la maggioranza dei suoi armamenti più moderni, unita a programmi di addestramento ed esercitazioni militari comuni, nonché a fitti scambi di informazioni fra le intelligence dei due paesi. Tale collaborazione si è riverberata anche nella lotta al terrorismo

qaedista nella penisola arabica, che ha portato a sostanziali successi e a una drastica riduzione degli attentati all’interno della regione.

Dal punto di vista energetico invece gli interessi statunitensi in Arabia Saudita non sono più determinanti come in passato. Il petrolio saudita, infatti, a partire dalla metà degli anni Novanta, non costituisce più la principale fonte di greggio degli Stati Uniti che si rivolge a paesi più vicini come Venezuela, Messico e Canada. L’interesse americano per il petrolio saudita rimane però in forma “indiretta”, essendo Riyadh l’unico produttore “flessibile” in grado di ricalibrare la propria produzione per equilibrare improvvisi sbalzi di prezzo dovuti al venir meno delle produzioni di altri paesi.

La Primavera araba ha ulteriormente indebolito le basi dei rapporti fra Riyadh e Washington, facendo emergere alcune differenze fondamentali fra i due paesi, soprattutto nei riguardi delle aperture democratiche avvenute all’interno della regione. L’Arabia Saudita non ha gradito l’appoggio formale dato dall’amministrazione Obama alle rivolte in Egitto, mentre Washington ha dovuto subire con grande imbarazzo l’intervento saudita in Bahrein volto a reprimere le locali manifestazioni di proteste contro la monarchia regnante. Alcuni osservatori sono arrivati a parlare di “relazioni in crisi” fra i due paesi e a paventare una possibile totale rottura in un futuro prossimo. Se l’ipotesi di una rottura appare piuttosto improbabile, a causa soprattutto degli sviluppi della crisi iraniana e degli stretti legami strategico-militari fra Washington e Riyadh, non si esclude che in futuro si possa assistere a due condotte diplomatiche divergenti fra i due paesi, soprattutto in materia di diritti umani e riforme democratiche nella regione mediorientale. Anche dal punto di vista economico è importante notare come l’interesse saudita si stia progressivamente spostando dall’Occidente – in passato meta principale degli investimenti dei petrodollari sauditi – verso l’Estremo Oriente, che nel frattempo è diventato per Riyadh il principale mercato petrolifero e dove altri rapporti economico-commerciali si stanno sviluppando in numerosi settori (si veda Politica 5).

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44.. LLEE RREELLAAZZIIOONNII CCOONN GGLLII SSTTAATTII UUNNIITTII

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55.. LLEE RREELLAAZZIIOONNII CCOONN LL’’AASSIIAA

Secondo un recente studio econometrico intitolato The Global Economy’s Shifting Centre of Gravity (Quah; 2011), dal 1980 al 2011 il “centro di gravità economico” si sarebbe spostato dall’Atlantico in direzione est di ben 4.800 km. Il progressivo spostamento dell’epicentro dell’economia mondiale verso potenze asiatiche quali Cina e India porrebbe i paesi del Ccg, e l’Arabia Saudita in particolare, più in prossimità del centro, sia geografico sia politico, dei nuovi equilibri economici globali.

Relazioni diplomatiche ufficiali tra Pechino e Riyadh sono state stabilite solo a partire dal 1990. Nel 1999 è stato firmato il trattato cino-saudita per la cooperazione petrolifera e nel 2002 Riyadh è divenuta il primo fornitore cinese di greggio. Nel frattempo la Cina ha cominciato a esportare massicciamente verso il Golfo, mentre il colosso petrolifero saudita Aramco ha avviato un vasto programma di investimenti in tutto il continente asiatico, volto a sviluppare le collaborazioni nei settori petrolifero e petrolchimico sia in Cina sia in altri paesi asiatici quali Indonesia e Corea del Sud.

Anche con New Delhi le relazioni hanno visto un sostanziale avvicinamento, soprattutto con la firma nel 2010 di un accordo di partnership strategica in numerosi campi, fra i quali energia e difesa. Riyadh è infatti il primo fornitore di petrolio dell’India, con circa un quinto del totale. I rapporti commerciali e le questioni legate alla comunità indiana presente in Arabia Saudita, che con i suoi due milioni di membri è la prima comunità straniera del regno, sono state al centro degli incontri bilaterali svoltisi nel corso del 2011. Sebbene destinate a consolidarsi, le relazioni tra Riyadh e New Delhi rimangono secondarie rispetto a quelle con Pechino (non si registrano finora grandi partnership indiano-saudite in settori strategici).

La crisi economica mondiale, che ha visto le economie asiatiche trainare la lenta ripresa, ha contribuito a intensificare le relazioni tra monarchie del Golfo e i colossi asiatici emergenti. In particolare i paesi del Golfo sono al centro dei programmi cinesi di apertura finanziaria che dovrebbero portare nei prossimi anni lo yuan a diventare progressivamente una delle maggiori monete di scambio, insieme a euro e dollaro. A questo proposito Pechino ha sottoscritto un accordo di swap di valuta con il Qatar, mentre uno analogo è atteso in tempi brevi con gli Eau. Con l’Arabia Saudita l’attivismo di Pechino ha portato alla firma a gennaio 2012 di un accordo per la collaborazione scientifica e tecnologica nel campo del nucleare civile.

Anche l’interscambio commerciale con l’Asia è destinato a crescere notevolmente. Entro il 2030 è infatti previsto un ulteriore aumento della domanda petrolifera cinese del 40%, che sarà soddisfatto soprattutto dalle forniture provenienti dal Ccg.

Se sul piano economico le relazioni sono quindi in costante miglioramento, sui principali dossier politici regionali si registrano invece delle divergenze. Le recenti crisi siriana e iraniana hanno infatti evidenziato le differenze in politica internazionale fra Arabia Saudita e Cina. Riyadh ha infatti sostenuto la risoluzione delle Nazioni Unite di condanna al regime di Bashar al Assad, bloccata dal veto russo e cinese, e ha guidato l’iniziativa della Lega araba per l’invio degli osservatori in Sira, attirando le critiche di Pechino e Mosca. Queste iniziative hanno invece riavvicinato la monarchia saudita a Washington dopo un periodo di forte raffreddamento dei rapporti durante la Primavera araba, in relazione soprattutto all’Egitto e al Bahrein. Ciò mostra come, malgrado il rapido scivolamento dei suoi interessi economici verso l’Asia, da una prospettiva di politica internazionale l’Arabia Saudita converga con gli interessi occidentali.

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La monarchia saudita è un rentier state, ciò significa che lo stato svolge essenzialmente una funzione di distributore della ricchezza derivante dalla rendita petrolifera, che consente al paese di avere uno dei più elevati redditi pro capite della regione (23.000 dollari nel 2010). L’economia è perciò strettamente condizionata dal prezzo del greggio, che negli ultimi anni si è mantenuto su livelli molto alti. Ciò ha determinato notevoli surplus nel bilancio statale, che hanno permesso un progressivo abbattimento del debito pubblico, che alla fine del 2011 ha toccato la soglia minima record di 8,3% sul Pil.

Anche la crescita economica ha beneficiato largamente degli alti prezzi del petrolio, facendo registrare nel 2011 +6,5% (Fondo monetario internazionale). Essa è stata sostenuta anche dalla spesa pubblica che, in seguito alle pressioni determinate dagli sconvolgimenti nella regione, ha visto la monarchia stanziare circa 130 miliardi di dollari di spesa straordinaria. Quasi la metà è stata destinata a nuovi progetti di edilizia abitativa che hanno permesso di abbassare notevolmente i costi delle abitazioni contribuendo ad alleggerire la pressione dell’inflazione, che nel 2011 si è attestata al 6%. Grazie a una politica fiscale espansiva, anche il settore bancario ha fatto registrare un +11% nel 2011, e si stima un ulteriore incremento di circa il 12% nel 2012.

La principale preoccupazione in campo economico nel lungo periodo per la leadership saudita è costituita dalla diversificazione dell’economia, che tuttavia appare ancora un obiettivo lontano, nonostante i sostanziali progressi compiuti negli ultimi anni. La rendita petrolifera, infatti, costituisce circa la metà del Pil del paese, nonché l’85% delle sue esportazioni. Negli ultimi anni, però, la casa regnante ha cominciato a investire risorse significative per diversificare l’economia, riuscendo a porre le basi per lo sviluppo di altri settori economici. Tra questi spicca il settore petrolchimico, sul quale la monarchia punta molto soprattutto per la diversificazione delle esportazioni, che in prospettiva dovrebbero basarsi meno sul petrolio greggio e più su prodotti industriali da esso derivati.

A questo si aggiungono il pieno sfruttamento delle risorse di gas naturale del paese (l’Arabia Saudita è al quinto posto per riserve mondiali di gas), il turismo, grazie soprattutto al pellegrinaggio verso i luoghi santi dell’Islam di Mecca e Medina, le telecomunicazioni e lo sviluppo di energie alternative. L’edilizia, sempre più aperta all’iniziativa privata, è un altro settore in piena espansione, data la grande quantità di investimenti e il costante aumento della popolazione. È da sottolineare come la casa regnante stia inoltre mettendo da parte notevoli riserve di valuta estera per cautelarsi in caso di un eventuale abbassamento dei prezzi del petrolio. Tali riserve dovrebbero ampliamente garantire la sostenibilità del settore pubblico e il finanziamento dei progetti di diversificazione economica per diversi anni. Nonostante l’economia sia in crescita in numerosi settori, rimane tuttavia allarmante il dato sulla disoccupazione giovanile che secondo stime non ufficiali si attesta intorno al 35%. Il sistema economico riesce a generare ogni anno un notevole numero di posti di lavoro, che però vengono occupati nella grande maggioranza da lavoratori stranieri, soprattutto provenienti dall’Asia musulmana (circa 5 milioni su una popolazione complessiva di 26,3 milioni di sauditi, nel 2009) (si veda Economia 6).

EECCOONNOOMMIIAA

11.. QQUUAADDRROO MMAACCRROOEECCOONNOOMMIICCOO

Grafico 1 – Crescita del Pil per settore (2011)

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Con un surplus di partita corrente di quasi 140 miliardi di dollari e una bilancia commerciale in attivo di 229 miliardi, l’Arabia Saudita è uno dei paesi che nel 2011 registrano la migliore performance in termini di interscambio commerciale. Il petrolio è di gran lunga la voce più importante delle esportazioni del paese – 335 miliardi complessivi nel 2011 – pesando su ben l’85% del totale. Anche le esportazioni non petrolifere stanno però facendo registrare un buon trend di crescita negli ultimi anni, con un +18% nel 2011. Tra di esse spiccano prima di tutto i prodotti petrolchimici,

metallici e plastici. L’Asia è il principale mercato delle esportazioni saudite, soprattutto per il petrolio greggio, pesando su quasi il 50% del totale. Per quanto riguarda invece le importazioni – circa 105 miliardi complessivi nel 2011 – , è prevista una crescita a partire dal 2012, soprattutto grazie ai grandi progetti industriali per la diversificazione dell’economia. Sono infatti previsti tassi di crescita a due cifre soprattutto per le importazioni di tecnologie e componenti industriali destinati a settori economici come l’edilizia, la chimica, l’impiantistica, le telecomunicazioni e l’ingegneristica. L’Arabia Saudita, con il suo elevato reddito pro capite, è inoltre da molti anni uno dei migliori mercati per quanto riguarda il settore del lusso e della moda. Tra i principali esportatori verso l’Arabia Saudita spiccano Stati Uniti (12,6%) e Cina (11%) come singoli paesi, anche se l’Unione europea nel suo complesso è la prima fonte delle importazioni saudite (29%), con Germania e Francia che da sole registrano circa il 13% del totale. Per quanto riguarda la presenza commerciale

italiana, essa è stabile da molti anni, soprattutto nei settori dei componenti industriali, dell’impiantistica, dell’arredamento e della moda.

Tabella 1 - Interscambio commerciale dell’Italia con l’Arabia Saudita (milioni di euro)

Export Import Saldo assoluto Saldo normalizzato %

2009 2010 var.

%

2009 2010 var. % 2009 2010 2009 2010

2.443 2.672 9,4 1.957 3.235 65,3 486 -563 11,1 -9,5

Fonte: dati Istat

EECCOONNOOMMIIAA

22.. IINNTTEERRSSCCAAMMBBIIOO CCOOMMMMEERRCCIIAALLEE

Grafico 1 – Principali destinatari dell’export

Grafico 2 – Principali fornitori sauditi

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A partire dal 2000 l’Arabia Saudita ha compiuto grandi passi in avanti nello sviluppo del settore privato e nella creazione di un ambiente competitivo per attrarre investimenti diretti esteri (Ide). La natura stessa del rentier state, in cui i prelievi fiscali da imprese e privati non costituiscono una voce fondamentale per il bilancio statale, ha reso l’operazione più agevole. La monarchia saudita è così riuscita a scalare rapidamente la classifica del doing business index di Banca mondiale, in cui occupa la 12° posizione (2011). In particolare l’Arabia Saudita si colloca al 7° posto nel most rewarding tax systems index e al 4° nel fiscal freedom index.

Al contrario di altre realtà mediorientali, in Arabia Saudita è possibile per gli investitori stranieri possedere la proprietà completa

delle società nonché vedere riconosciuta la validità delle sentenze straniere, purché non siano in contrasto con la legge coranica. L’Arabia Saudita è inoltre uno dei più grandi paesi arabi per popolazione e il più grande della penisola arabica. Questo dato, combinato con un elevato reddito pro capite (23.000 dollari) rende il mercato interno tra i più

appetibili della regione.

Questi fattori hanno portato il paese ad attrarre nel 2010 38,2 miliardi di dollari in Ide, un dato destinato a crescere nel futuro, grazie alle nuove opportunità di investimento che le autorità saudite stanno mettendo in campo.

Allo scopo di attirare e indirizzare al meglio gli investimenti esteri, la monarchia saudita ha istituito l’Autorità generale per gli investimenti, una agenzia statale che si occupa di promuovere le opportunità di investimento attraverso eventi, attività informative e servizi per gli investitori.

Negli ultimi anni il focus degli Ide verso l’Arabia Saudita è stato concentrato sulle cosiddette “economic

city”, complessi urbani costruiti ex novo dallo stato, destinati a ospitare attività economiche diverse, dai centri di ricerca alle industrie. La priorità è stata data allo sviluppo di Jazan Economic City, Prince Abdulaziz bin Mousaed Economic City e Knowledge Economic City. All’interno di questi centri sono previsti numerosi progetti soprattutto nel campo della petrolchimica, dell’impiantistica, dell’agribusiness, della farmaceutica e dell’edilizia. Da rilevare inoltre i grandi capitali che lo stato intende investire nella ricerca e nello sviluppo delle energie rinnovabili e del nucleare civile.

L’Arabia Saudita è inoltre un importante fonte di Ide, 26,2 miliardi di dollari nel periodo 2000-2009. Solo nel 2011, infatti, circa due terzi del surplus di partita corrente realizzato dallo stato è stato investito in asset stranieri. Negli ultimi anni gli investimenti sauditi, che in passato tendevano a prendere la via dell’Occidente, e soprattutto degli Stati Uniti, hanno cominciato a prendere sempre più spesso la via dell’Estremo Oriente (Cina, Korea, Indonesia). Essi si concentrano primariamente nel settore energetico e petrolchimico, anche se non sono da trascurare gli ingenti capitali gestiti all’interno della rete delle banche islamiche, un sistema internazionale di banche che opera secondo precise regole etiche, e che tradizionalmente non prevede il prestito a interesse (si veda Approfondimento 2).

EECCOONNOOMMIIAA

33.. IINNVVEESSTTIIMMEENNTTII

Grafico 1 – Variazioni doing business index (2005-09)

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Con il 25% del totale delle riserve di petrolio globali, l’Arabia Saudita è il più importante produttore

di greggio al mondo. La sua capacità produttiva attuale ammonta a circa 11 milioni di barili giornalieri e fino a due milioni di barili raffinati.

Questi dati rendono l’Arabia Saudita il membro di gran lunga più importante dell’Opec, l’organizzazione mondiale dei produttori di petrolio, in cui detiene una posizione di leadership. Essa è data soprattutto dalla capacità della produzione saudita di rimodularsi in modo da poter, all’occorrenza, influire direttamente sulle oscillazioni dei prezzi del greggio e di poter compensare una eventuale momentanea riduzione nelle produzioni di altri paesi esportatori. Tale caratteristica, unica fra tutti i produttori mondiali di petrolio, conferisce alla monarchia un ruolo di stabilizzatore del mercato. Nel 2011 si è avuta prova di ciò quando re Abdallah ha fatto aumentare la produzione saudita per sopperire all’interruzione delle forniture libiche in seguito allo scoppio della guerra civile che ha portato alla fine del regime di Muammar Gheddafi. Allo stesso modo Riyadh ha assicurato il rimpiazzo delle forniture iraniane, in caso queste vengano interrotte, o boicottate in seguito a un ulteriore aggravarsi della crisi in corso tra Teheran e i paesi occidentali.

Sia la produzione, sia la raffinazione sono in mano al colosso parastatale Aramco, al momento la più grande società petrolifera del mondo. Nei prossimi anni sono previste alcune importanti riforme del settore che permetteranno una maggiore partecipazione

dei privati al settore energetico, che al momento è sotto totale controllo della casa reale. L’Aramco possiede anche le notevoli riserve di gas del paese (8.000 gmc). Tuttavia, la produzione saudita (83,9 Gmc/a) per quanto consistente, è appena sufficiente a coprire il fabbisogno domestico.

L’Asia è la principale destinazione del greggio saudita. In particolare Cina, Giappone, Corea del Sud e India risultano i principali acquirenti, distanziando di molto l’Europa, che basa su Riyadh solo una piccola parte delle proprie importazioni.

L’Arabia Saudita è inoltre diventata il principale fornitore della Cina, con la quale ha avviato collaborazioni economiche e finanziarie (si veda scheda Politica 5). Aramco ha inoltre numerose partnership e collaborazioni nei settori energetici di molti paesi quali la Corea del Sud, la Cina e l’Indonesia, in cui ha acquistato o ha intrapreso partnership con società energetiche locali.

Petrolio e gas rappresentano inoltre il 100% delle fonti di energia per la stessa Arabia Saudita, i cui cittadini vantano uno dei più alti consumi energetici pro capite del mondo. Il costante aumento del consumo interno, facilitato anche dai generosi sussidi sui prezzi di gas e carburante, è un fenomeno che preoccupa la monarchia saudita. Il timore è che un consumo eccessivo delle risorse prodotte nel paese da parte degli stessi sauditi possa nel tempo intaccare le esportazioni del regno e limitare la capacità del paese di fungere da stabilizzatore del mercato.

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44.. IILL PPRRIIMMOO PPRROODDUUTTTTOORREE MMOONNDDIIAALLEE DDII PPEETTRROOLLIIOO

Grafico 1 – Principali destinatari delle esportazioni di

petrolio saudite

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Dopo essere rimasto stabilmente intorno ai 110 dollari al barile per circa 8 mesi, il prezzo del brent (il petrolio grezzo di alta qualità) ha ricominciato a salire nelle ultime settimane. Il 20 febbraio ha superato quota 120 dollari, il prezzo più alto dallo scorso maggio, ed è rimasto stabile nei giorni seguenti.

La ragione di questa improvvisa impennata è da attribuire in primo luogo alle persistenti tensioni tra Iran, Israele e Stati Uniti. Le voci su possibili interventi militari, l’applicazione di ulteriori sanzioni nei confronti della Repubblica iraniana, la minaccia di Tehran di chiudere lo Stretto di Hormuz (da cui transita il 20% delle forniture mondiali di greggio) e il taglio preventivo delle esportazioni verso l’Europa messo in atto da Tehran hanno creato agitazione nei mercati. Oltre alle tensioni nel Golfo, si aggiungono le prolungate situazioni di stallo politico in Libia e Iraq, il calo di esportazioni dal Sud Sudan dovuto ai nuovi problemi politici del neonato paese africano e alcuni problemi tecnici che hanno ridotto le estrazioni nel Mare del Nord. Sul lato della domanda invece si prevede un ulteriore incremento delle importazioni asiatiche, e soprattutto cinesi, in grado di compensare la notevole caduta dei consumi europei e americani. In Europa, infine, la grande liquidità resa disponibile dalla Banca centrale europea (Bce) per supportare la ricapitalizzazione delle banche ha ulteriormente indebolito l’euro rispetto al dollaro (valuta in cui il petrolio viene scambiato) rendendo l’aumento dei prezzi dell’energia particolarmente salato per i paesi dell’Unione europea.

La mancanza di soluzione a breve termine della crisi iraniana nonché la difficile situazione in Libia e Iraq hanno portato gli investitori a scommettere su un ulteriore rialzo dei prezzi del greggio, come dimostra l’andamento del mercato dei titoli future. Anche gli indici borsistici dei paesi produttori, soprattutto nella penisola arabica, hanno subito notevoli aumenti, dovuti all’uso che molti investitori stanno facendo dei titoli scambiati in queste piazze come proxy rispetto ai titoli legati al greggio.

Nel frattempo si sono moltiplicati gli appelli da più parti per un aumento della produzione dell’Opec che impedisca un’ulteriore impennata del prezzo. In particolare è stato chiesto all’Arabia Saudita di aumentare la sua produzione (che potrebbe passare a 12 milioni di barili giornalieri stimati) per compensare la possibile riduzione del greggio disponibile sul mercato mondiale. Tuttavia Riyadh, tenendo la propria produzione stabile sui 9,8 barili giornalieri (comunque più alta rispetto ai normali 8 milioni), ha semplicemente messo in campo le proprie riserve, che hanno contribuito ad aumentare leggermente la quantità di greggio disponibile sui mercati. Da una parte, infatti, la monarchia saudita ha interesse a tenere alti i prezzi in un periodo di incremento della spesa pubblica, mentre dall’altra vuole evitare lo scoppio di una possibile bolla legata ai prezzi del greggio e il loro conseguente crollo. Al momento, a parte limitate contrazioni di produzione locali e contingenti, la quantità di greggio disponibile sul mercato è di fatto stabile e solo il timore di possibili futuri shock della produzione porta gli operatori a prevedere ulteriori aumenti del prezzo. Inoltre, è da segnalare che, nonostante la difficile situazione politica, sia la produzione irachena sia quella libica stanno aumentando notevolmente, con la Libia che è tornata molto vicina ai livelli di produzione pre-rivoluzione, e l’Iraq che ha superato a inizio marzo i 3 milioni di barili al giorno.

Il timore di un eccessivo aumento dei prezzi contribuisce a spiegare inoltre la ripresa delle trattative sulla questione nucleare tra Stati Uniti, Europa e Iran, che auspicabilmente dovrebbe tranquillizzare i mercati. In particolare quello che nei paesi occidentali è visto con grande preoccupazione è una possibile ulteriore spirale recessiva dovuta ai prezzi dell’energia in un momento di enorme fragilità delle economie europee.

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55.. IILL PPIICCCCOO DDEELL PPRREEZZZZOO DDEELL PPEETTRROOLLIIOO

Grafico 1 – Il picco del petrolio

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Se l’Arabia Saudita – come le altre monarchie arabe – ha finora retto bene l’urto della Primavera araba, è tuttavia necessario tenere conto di alcuni fattori economici e demografici che potrebbero comprometterne la stabilità nel lungo periodo.

Uno degli elementi fondanti del rentier state, infatti, è la politica del sussidio, che si articola sia in sussidi “indiretti” – come l’istituzione di un numero di impieghi pubblici ben più alto rispetto al necessario – sia in sussidi “diretti” di solito su beni primari come alimentari, abitazioni e carburante. Tale pratica si è ampiamente diffusa come strumento di controllo sociale a partire dal secondo dopoguerra in gran parte dei paesi arabi, compresi quelli con risorse petrolifere più limitate. Gli alti tassi di crescita demografica registrati in Medio Oriente e in Nord Africa negli ultimi 50 anni (i sauditi sono passati da 5,7 milioni di abitanti nel 1970 a quasi 26 milioni nel 2009) hanno però messo a dura prova questo modello. Esso è stato progressivamente abbandonato in alcuni paesi come Egitto e Siria, andando ad amplificare ulteriormente quel malessere sociale sfociato nella Primavera araba, mentre comincia ora a mostrare le prime crepe nei paesi più ricchi di risorse energetiche come l’Arabia Saudita.

Se l’aumento dei prezzi del petrolio durante il primo decennio del Duemila è infatti riuscito a bilanciare l’espansione della spesa pubblica saudita, accelerata ulteriormente dalla Primavera araba, resta da vedere fino a quando ciò sarà sostenibile. La crescita della popolazione è stata accompagnata da un notevole incremento dei consumi interni di petrolio, anch’essi pesantemente sussidiati, che hanno raggiunto nel 2010 ben 2,5 milioni di barili al giorno (l’Italia, con quasi 60 milioni di abitanti, consuma 1,5 milioni di barili al giorno). Queste cifre hanno fatto scattare l’allarme tra i responsabili economici del regno, i quali prevedono che – se questi trend di consumo e crescita demografica dovessero protrarsi in maniera stabile – nel 2030 il consumo interno si attesterà sugli 8 milioni di barili giornalieri, ovvero quasi il 70% della capacità produttiva complessiva. In un tale scenario, già prima del 2020 si assisterà a un deficit nel bilancio pubblico e al conseguente aumento del debito sovrano, che la casa reale è riuscita in questi anni ad abbattere quasi totalmente.

Non potendosi permettere un taglio netto dei sussidi dei carburanti – con i conseguenti effetti inflazionistici e di malessere sociale che tali provvedimenti comporterebbero – la linea adottata dalla monarchia è stata quella di puntare sullo sviluppo di fonti energetiche alternative che possano rimpiazzare il petrolio per i consumi interni. Mancano invece programmi per una riduzione progressiva dei sussidi o per una campagna sociale per la riduzione dei consumi energetici pro capite.

Un altro problema legato alla politica dei sussidi è quello della disoccupazione giovanile. L’elevato numero di posti pubblici ben retribuiti e con orari di lavoro ridotti ha infatti indotto la popolazione a evitare gli impieghi nel settore privato. Ciò ha avuto effetti indiretti molto gravi sul livello di formazione professionale della gioventù saudita – spesso a sua volta snobbata dal settore privato che preferisce assumere professionisti stranieri meglio preparati e con retribuzioni più basse – e creato di fatto due diversi mercati del lavoro: quello pubblico, occupato interamente da sauditi, e quello privato, in cui la forza lavoro straniera, con diversi livelli di qualifica professionale, occupa il 90% degli impieghi.

Per tentare di contrastare questo fenomeno la monarchia ha iniziato a introdurre forti incentivi fiscali per gli investitori che si impegnano ad assumere e formare manodopera locale. Tali incentivi, però, finora non sono bastati a bilanciare gli alti salari minimi e la carente preparazione dei lavoratori sauditi, facendo registrare scarsi risultati.

Il piano di istituzione di un generoso assegno di disoccupazione (già richiesto da circa 1,5 milioni di sauditi), messo in atto in seguito alle turbolenze che hanno scosso il mondo arabo nel 2011, non ha fatto altro che mantenere elevato il tasso di disoccupazione dei giovani – intorno al 35% secondo stime non ufficiali – ulteriormente disincentivati a trovare un impiego.

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11.. IILL CCOONNSSIIGGLLIIOO DDII CCOOOOPPEERRAAZZIIOONNEE DDEELL GGOOLLFFOO

Il Consiglio di cooperazione del Golfo (Ccg) si è costituito nel 1981 quando le sei monarchie della penisola arabica decisero di istituzionalizzare la loro cooperazione in materia politica e di sicurezza in seguito agli avvenimenti che tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta – il trattato di pace tra Egitto e Israele, la rivoluzione in Iran, l’invasione sovietica dell’Afghanistan e la guerra tra Iran e Iraq – mutarono la geopolitica regionale e le percezioni di sicurezza nell’area del Golfo.

Allo scopo di aggiungere una dimensione economica alla cooperazione politica e di sicurezza, gli stati membri firmarono un accordo, entrato in vigore nel 1983, che fissava l’obiettivo di creare un’unione doganale come prima tappa verso la realizzazione di un mercato comune e l’adozione di una moneta unica. L’accordo stabiliva innanzitutto l’abolizione delle tariffe sui beni prodotti dagli stati membri e fissava un livello minimo e massimo (rispettivamente, 4% e 20%) per le tariffe da applicare sulle importazioni provenienti dai paesi terzi. Tuttavia, lo smantellamento tariffario all’interno della regione non ha favorito un incremento degli scambi commerciali tra i paesi membri, a causa della scarsa complementarità delle economie del Ccg, caratterizzate da una struttura produttiva (fondata sugli idrocarburi) assai simile. Proprio per questo motivo la cooperazione economica tra le sei monarchie del Golfo, più che a sviluppare i flussi commerciali regionali, punta ad assumere posizioni comuni

nelle trattative economiche internazionali, aumentando in tal modo il peso negoziale degli stati membri.

L’unione doganale, entrata in vigore a gennaio 2003, ha rappresentato un passaggio di grande importanza dopo quasi due decenni di continui rinvii dovuti principalmente alle notevoli differenze tariffarie tra gli stati membri. Essa è stata seguita dalla creazione del mercato comune nel 2008. Al contrario l’unione monetaria, prevista per il 2010, non è stata ancora realizzata, sebbene la maggior parte dei criteri di convergenza richiesti siano stati soddisfatti dai paesi membri. Questi criteri, che ricordano quelli stabiliti dall’Unione europea, sono: 1) deficit di bilancio al di sotto del 3% del Pil (o 5% quando il prezzo del petrolio è basso); 2) rapporto debito pubblico/Pil al di sotto del 60%; 3) eccedenze di riserve di valuta estera; 4) tassi di interesse non superiori del 2% della media dei tre paesi con i tassi di interesse più bassi; 5) inflazione non deve essere superiore di più del 2% del tasso medio dei sei stati.

Una battuta d’arresto nel processo di convergenza monetaria è stata segnata nel 2007 dall’annuncio del Kuwait di abbandonare l’ancoraggio della propria moneta al dollaro per sostituirlo a un paniere di valute cui ha fatto seguito la decisione di Oman e Emirati Arabi Uniti di non voler entrare nell’Unione monetaria. Oltre a ciò, le questioni chiave da affrontare per farla ripartire includono la necessità di una struttura istituzionale e di governance che assicuri la presa di decisioni monetarie trasparenti ed efficaci, il miglioramento della capacità dei paesi del Ccg nel fornire dati finanziari ed economici armonizzati e aggiornati e infine maggiori investimenti nello sviluppo di infrastrutture finanziarie.

Le Primavera araba ha riportato alla ribalta il progetto di unione monetaria. Sono infatti ripresi gli incontri tra i membri del Ccg (esclusi Eau e Kuwait) sul tema, ed entro l’anno si dovrebbe giungere alla stesura di una road map per l’effettiva realizzazione del progetto. Se attuata, l’adozione dell’unione monetaria e di una moneta unica avrebbe importanti benefici tra cui l’eliminazione dei costi di transazione e dei rischi di cambio, un maggiore peso negoziale nei contesti internazionali, l’incremento dell’interscambio tra gli stati membri in vista anche dei piani di diversificazione economica, miglioramento delle prospettive di investimento, ecc.

Dopo che, soprattutto in Bahrein, l’ondata delle rivolte arabe è arrivata a far tremare anche le potenti case regnanti del Golfo, tale unione è vista ora anche come strumento per garantire una maggiore collaborazione nei settori della sicurezza e della politica estera, che assicuri stabilità alle monarchie conservatrici che ne farebbero parte. Proprio a questo fine a maggio 2011 il Ccg ha invitato formalmente le altre due monarchie arabe, Giordania e Marocco, a fare parte dell’organizzazione. Tale operazione – vista dagli esponenti liberali giordani e marocchini come volta sostanzialmente a frenare le aperture politiche nei due paesi in cambio di un posto nel consiglio e dei vantaggi economici ad esso legati – ha visto finora sviluppi significativi solo riguardo alla Giordania, che in questi mesi riceverà 5 miliardi di dollari dal Ccg per appianare il suo grave deficit di bilancio in vista di ulteriori passi verso l’effettivo ingresso nell’organizzazione.

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La finanza islamica è una peculiarità dei mercati finanziari di molti paesi a maggioranza musulmana. Essa solitamente opera parallelamente al sistema finanziario tradizionale, con alcune eccezioni come l’Iran, dove il sistema finanziario è islamico al 100%. All’interno dei paesi arabi essa ha visto un progressivo sviluppo nell’ultimo decennio – nel 2004 la percentuale araba dell’interno sistema finanziario islamico era solamente del 29% mentre del 2011 è arrivata al 50% – soprattutto nei paesi del Ccg. L’Arabia Saudita è il secondo paese del Golfo dopo il Kuwait per asset totali posseduti da istituti finanziari islamici.

Ciò che contraddistingue principalmente il sistema finanziario islamico rispetto al sistema tradizionale è il divieto del prestito a interesse, considerato haram (peccaminoso) per l’Islam. Ad esso si accostano i divieti di speculazione e di investimenti a rischio elevato. Tali caratteristiche cambiano in modo sostanziale sia le procedura per la raccolta di capitali sia quelle per l’investimento.

Per quanto riguarda la raccolta di capitali essa avviene principalmente in due modi:

- Depositi a richiesta (Demand deposits): il depositante non riceve alcun tipo di ritorno economico dal suo deposito, che può essere ritirato totalmente in qualunque momento. Tale deposito viene scritto a bilancio come debito della banca verso il depositante che, come unico tornaconto, ha la possibilità di usare i sistemi di pagamento elettronici e i servizi bancari.

- Conti di investimento (investment accounts): questa tipologia di conto prevede la partecipazione agli utili della banca in proporzione al capitale versato. Tale sistema rende il depositante una figura ibrida tra detentore di azioni senza diritto di voto e detentore di un credito verso la banca, in quanto, nonostante siano possibili alcune limitazioni, anche in questo caso il capitale può esser ritirato in ogni momento.

Gli investimenti finanziari invece si dividono tra le operazioni iniziate direttamente su proposta del management della banca, e quelle proposte da un cliente in cerca di finanziamenti. Spesso i tipi di contratto stipulati da una banca islamica possono avere analogie più o meno marcate con quelli stipulati in un contesto bancario tradizionale. I tre contratti più comuni nel sistema finanzio islamico sono:

- Murabaha: il contratto consiste nell’acquisizione di beni da parte della banca che poi vengono rivenduti a prezzo maggiorato al cliente, il quale solitamente paga ratealmente.

- Musharaka: è un classico accordo di compartecipazione. Alla banca spetterà una percentuale dei profitti dell’impresa da essa finanziata in proporzione alla percentuale di capitale versato.

- Mudaraba: si tratta sostanzialmente di un finanziamento fiduciario. La banca mette a disposizione il 100% del capitale mentre il cliente si impegna a portare a buon esito l’investimento. I ricavati vengono divisi in percentuale stabilite alla stesura del contratto.

In passato sono sorte numerose controversie tra le diverse istituzioni finanziarie islamiche, soprattutto per quanto riguardava l’interpretazione e l’applicazione di alcune regole religiose nelle loro attività finanziarie. Allo scopo di risolvere queste diatribe, negli ultimi decenni sono stati creati degli organismi per la

certificazione e l’omologazione delle attività delle istituzioni finanziarie islamiche. Fra queste la più nota è l’Islamic Fiqh Academy.

Al contrario del sistema finanziario tradizionale, il sistema finanziario islamico applica principi che, almeno in linea teorica, mantengono la finanza e i guadagni da essa generati sempre ancorati all’economia reale. In realtà, le istituzioni finanziarie islamiche non sono state risparmiate dal tracollo finanziario che ha colpito i paesi del Golfo nel 2008-2009. Negli ultimi anni, infatti, attraverso numerosi artifici anche tali istituzioni sono riuscite a introdurre forme velate di speculazione e investimenti ad alto rischio, che le hanno rese altrettanto sensibili allo scoppio delle bolle finanziarie.

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Nel quadro degli ingenti capitali stanziati dalla monarchia saudita per il potenziamento delle proprie infrastrutture vi è una serie di linee ferroviarie che potrebbero rivoluzionare i trasporti di persone e merci nella regione.

Il progetto più grandioso, da mettere in campo in collaborazione con gli altri paesi membri del Ccg, riguarda la costruzione di una linea ferroviaria che dovrebbe collegare il Kuwait all’Oman lungo tutta la costa settentrionale della penisola arabica comprese l’isola del Bahrein e la penisola del Qatar. Il Ccg ha approvato nel 2010 lo studio di fattibilità per il progetto che dovrebbe diventare operativo nel 2017. Esso dovrebbe costituire la base di un ulteriore prolungamento in grado di portare le merci provenienti o dirette verso il Ccg dal Kuwait fino alla Turchia attraverso l’Iraq, e dalla Turchia alle porte dell’Europa.

Parallelamente alla linea Oman-Kuwait, le autorità saudite stanno lavorando a un altro ambizioso progetto, ovvero la linea

Dammam-Jedda, in grado di collegare il Golfo persico/arabico al Mar Rosso. Tale progetto, chiamato Landbridge, sarebbe volto al trasporto di gran parte delle merci dirette in Occidente e in Africa attraverso l’entroterra e il Mar Rosso, andando così a bypassare lo Stretto di Hormuz, al centro delle tensioni internazionali tra l’Iran e i paesi occidentali. Il Landbridge, in origine pensato come una compartecipazione pubblica e privata, è però rimasto finora sulla carta a causa della mancanza di privati interessati. Visti i recenti sviluppi geopolitici, però, non è escluso che le autorità saudite decidano di iniziare la costruzione ricorrendo ai soli investimenti pubblici. Lungo il tratto Jedda-Riyadh, inoltre, dovrebbe essere realizzata una linea ad alta velocità in grado di collegare in poche ore i due più importanti centri del paese.

Questi due progetti fanno parte di una più generale corsa alle infrastrutture ferroviarie che riguarda tutti i membri del Ccg e cui sono destinati ingenti investimenti. In particolare il Qatar, nel quadro degli investimenti per i Mondiali di calcio del 2022, ha in cantiere un grandioso progetto per il collegamento, attraverso un ponte rialzato lungo 40 km, della penisola qatariana con l’isola del Bahrein. Tali infrastrutture, oltre a migliorare la stabilità e la sicurezza dei flussi di merci diretti all’esterno del Ccg, sono mirate a rendere più semplici le comunicazioni e gli spostamenti fra i membri della stessa organizzazione, anche in vista di una più stretta unione economica e politica nel medio-lungo periodo.

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33.. II PPRROOGGEETTTTII FFEERRRROOVVIIAARRII NNEELLLLAA PPEENNIISSOOLLAA AARRAABBIICCAA

Il progetto ferroviario Landbridge